La giusta misura

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Sunday’s posts are dedicated to Italian poetry or short stories. Tuesdays posts will be in English as usual. Thank you for visiting, come back soon.

Questo breve racconto fa parte della preziosa antologia composta da cinque racconti intitolata “Storie del Parco 2018”, presentata al pubblico domenica scorsa durante il Festival del Parco di Monza 2018. Buona lettura!

LA GIUSTA MISURA
di Anna Mosca

 

potessi passare
la mia vita
sotto l’ombra di
un fungo matto
sbrigando serenamente
le mie faccende quotidiane
nutrendo anime mentre
attendo il sussurro
della morte che si
avvicina come il vento
tra le foglie in alto

California Notebooks 02

 

L’infanzia è un mondo a sé in cui s’imparano e scoprono tantissime cose nuove che poi dimentichiamo. Quelle che restano sono poche. Le cose imparate, come il comportamento, cosa dire, cosa fare, scalzano il ricordo di chi siamo e da dove veniamo. Io e il nonno uscivamo dal nostro cancello bianco ad Arcore e svoltavamo a sinistra, incamminandoci verso sud, destinazione Parco di Monza. Il nonno, ogni tanto mi faceva vedere che si poteva anche fuggire oltre, che aldilà del nostro incantevole giardino, c’era un mondo e lui mi accompagnava alla scoperta. Passo dopo passo m’istruiva, chissà, a trovare la mia indole, a invocare il mio futuro.

Superavamo una strada sterrata alla nostra sinistra. Era la via Carso, una buca larga e lunghissima, piena d’erba e fango, con due sentieri a lato. Le poche case presenti al tempo erano sparse tra i prati come margherite selvatiche.

“Innanzitutto togliti le scarpe” diceva il nonno “ bisogna camminare comodi”.

Non stavo in me dalla gioia. Camminare senza scarpe era un piacere. Le scarpette dei bambini non erano comode. Le mie erano carine, eleganti, quelle di pelle blu, con la gomma bianca sotto, i due buchi davanti e la cinghia laterale. Il mal di piedi era cosa comune. Velocissima le passavo al nonno. Ci lasciavamo alle spalle il mondo come lo conoscevamo e ci avventuravamo oltre i confini. La via Resegone era quasi il seguito della nostra via. Era una strada dritta, senza marciapiedi e attraversava grandi campi coltivati. Non c’era costruito nulla, né a destra, né a sinistra. C’erano i fossati davanti ai campi. Servivano a raccogliere l’acqua piovana e si riempivano di fiori in primavera: occhietti di Gesù o di Maria, bottoni d’oro e denti di leone. Poi cominciarono a riempirsi di rifiuti, lanciati dalle auto. A cento passi da casa era aperta campagna, con la catena del Resegone a destra, che gli occhi sembravano poter accarezzare solo in volo. All’incrocio con via Cervino c’era l’Osteria del Tiro a segno e lì tiravamo dritto. Era frequentata soprattutto nei fine settimana dagli uomini del paese. Facevano il tiro al piattello ma usavano anche uccelli vivi. Superavamo la Cà Bianca, una frazione di Arcore, situata a metà nel percorso e si proseguiva verso Villasanta, nell’afa chiara estiva, tipica della pianura, prima di calarci nell’ombra del Parco. Il Re era stato ucciso raccontava il nonno, e tanti dei nobili, le cui ville incrociavano i nostri percorsi, erano finiti male pure loro. Tra storie di re e nobili, di omicidi e di morti, di storia e di guerre, arrivavamo al passaggio a livello, dove ci fermavamo a riposare sempre, che fosse chiuso o aperto. Ci accovacciavamo all’ombra. Mi accorgevo che avevo sete. Non esistevano le bottigliette di plastica. Se era piena estate e avevo tanta sete il nonno mi insegnava come resistere. Raccoglieva una pietruzza tonda:

“La pulisci dalla polvere e la metti in bocca” diceva, “vedi, la tieni in bocca, come fosse una caramella, ma stai attenta a non ingoiarla, altrimenti ti devo appendere a testa in giù per farla uscire” aggiungeva, “non ingoiarla.” Lui serio, io ridevo.

Funzionava. Provocava salivazione e si avvertiva un certo sollievo dalla sete.

Osservavamo il passaggio a livello mentre ci riposavamo. Erano due sbarre, una per ciascun lato dei due binari, bianche e rosse. I binari allora si attraversavano con cautela, guardando bene. Il nonno mi teneva sempre per mano, anche quando le nostre mani erano piene di pietre, cordini, viti e bulloni o qualsiasi oggetto trovato per strada. Raccoglievamo tutto e tra di noi discutevamo dell’uso che potevamo farne. Immediato o meno. Le tasche del nonno erano spesso piene di cose da riportare a casa. L’erba alta era gialla, come le erbacce e gli strigoli. Si muovevano pigri gli strigoli, con i loro palloncini verdini e bianchi, quasi di carta, sembravano ergersi verso il cielo e gonfiarsi di aria. Non vedevo l’ora di acchiapparne qualcuno e di farli scoppiare tra le dita. L’erba alta cominciava a muoversi più veloce. Il nonno s’inginocchiava a terra e metteva l’orecchio al terreno. Restava lì fermo un attimo e se cominciavo a parlare si metteva un dito alle labbra e corrugava le folte sopracciglia lanciandomi un’occhiata ammonitrice. Dopo un paio di minuti d’immobilità, mi diceva, con tono certo:

“Arriva il treno. Quando è passato procediamo per il parco”.

L’erba e gli strigoli si muovevano ancora più freneticamente quasi avessero ascoltato il nonno e si lanciavano in una danza eccitata. Il treno faceva un rumore assordante per una bambina piccola com’ero io. Mi faceva paura. Il nonno mi teneva stretta tra le sue braccia facendo da scudo al rumore, come se fosse un nemico in carne e ossa. Nel frattempo teneva gli occhi sui binari, mentre io i miei li chiudevo. Quando il treno era passato, un poco alla volta lui allentava la stretta, io aprivo gli occhi e toglievo le manine dalle orecchie. Le sbarre dei binari salivano lentamente. L’erba alta a lato treno si riprendeva dal passaggio del treno e cercava di rimettersi composta, riassettandosi con mossette lente.

Ci avviavamo giù per la discesa dopo i binari, io tra salti e passi a mezz’aria, che quasi mi sembrava di volare. A lato strada, tra gli arbusti incolti, cercavamo un piccolo bastone per me. Camminavo più compita, con tanto di bastone da passeggio, mentre ci avvicinavamo al ponte dell’era Napoleonica sopra il fiume Lambro. “Pensa, questi massi, sono stati messi insieme, più di duecento anni fa, per fare questo ponte” mi spiegava il nonno. “Duecento anni sono tantissimi,” precisava, “Napoleone era imperatore e aveva una sorella che si chiamava come la tua mamma, Paolina”, aggiungeva con un sorriso d’orgoglio. Il nonno si era sempre dimostrato orgoglioso della sua famiglia. Era una bella sensazione sentirsi tribù e parte di un’unità di amore e rispetto. Io duecento anni non riuscivo a immaginarli.

Al piccolo centro di San Giorgio, gettavamo giusto un’occhiata veloce, io il più compìta possibile, probabilmente ancora scalza. In una mano il bastone e nell’altro la forte mano del nonno, di cui andavo ancora più orgogliosa che del nuovo bastone da passeggio. Attraversavamo rapidi, con il mio piccolo naso e quello grande del nonno, protesi in avanti, come fossimo cani da fiuto. Rimaneva ancora un pezzettino di strada da fare. Forse una quindicina di passi, che compivamo di fretta per evitare il pericolo delle macchine in curva che arrivavano in velocità. Io con il cuore in gola. Eravamo giunti sotto l’arco dell’ingresso di San Giorgio, al Parco di Monza. Alla nostra sinistra c’era la portineria e a destra la fontanella dell’acqua fresca. Io ci entravo anche con i piedini. Eravamo arrivati. Avremmo cercato un angolino bello per sederci e ammirare la natura, per intagliare i nostri bastoni, per raccogliere bacche e fiori. Avremmo guardato le cose meravigliose contenute in questo grande parco costruito per un re, quindi, va da sé, pieno di tesori.

Nel parco, la strada che si estendeva verso destra era piena di more mature d’estate. Ci riempivamo le mani e le guance di quelle more, come gli scoiattoli con le ghiande. Capitava che, nella foga, io stessi poco attenta alle spine dei rovi, mi pungessi e piangessi disperatamente. Sapevo che le principesse punte da un rovo potevano cadere in un sonno quasi eterno. Piangevo più per il dispiacere di dover lasciare questo mondo pieno di bellezza e per la paura dell’incantesimo, che per il dolore vero e proprio. Il nonno impiegava parecchio tempo a dimostrarmi che si trattava di un rovo comune, a cercare le spine conficcate nella mia pelle, a toglierle quando possibile, a baciarmi le manine o i gomiti o le ginocchia.

“Allora non sei un orsetto come credevo”, diceva per distrarmi, “sai loro si buttano nei rovi, coperti da quella loro pelliccia e mangiano tutto quello che trovano, sono ghiottissimi!”

“Ma anch’io sono ghiotta, nonno” lo interrompevo.

“Ma non hai la pelliccia che ti protegge e sei troppo bianca e bionda per essere un orsetto, dov’è la ciccia su queste gambette lunghe e su queste braccine magre?”

Il viale a sinistra invece era ombreggiato e c’erano parecchie famiglie di alberi e un sottobosco incredibile, in ogni stagione. In primavera il sottobosco si copriva di aglio ursino i cui fiori bianchi erano una meraviglia. D’estate l’aglio ursino scompariva e apparivano fiori selvatici e felci, le cui giovani foglie si arrotolavano su se stesse in piccole spirali quando impaurite. Le felci sono piante molto sensibili in grado di emozioni, visibili anche agli occhi umani. I prati erano pieni di margherite pratoline, quelle che arrossiscono a fine petalo, e che si chiudono appena fa sera. C’erano anche le margherite più spavalde, tutte bianche, anche loro amavano andare a letto presto. Se erano già chiuse quello era il segnale per noi di rimetterci sulla via di casa. In primavera il verde era frammisto al giallo dei botton d’oro, i ranuncoli. Si diceva che intrecciati in una coroncina, messa sul capo o al collo, allontanavano la pazzia nera dell’inverno. Sprigionavano l’amore del sole che con il suo bacio guariva.

Il Parco di Monza aveva una sua forte dimensione energizzante e contemplativa. Appena varcavamo il cancello era come se fossimo investiti da una doccia di goccioline verdi che ci rinnovava la carica e la visione. Era come se si creassero in noi mulinelli di acqua che cercava la sua via e poco alla volta si acquietavano. Questa proprietà, sconosciuta a molti, era efficace sempre. Anche per quelli che non se ne rendevano conto, che entravano nel parco, non in punta di piedi ma sguaiati, in gruppi disordinati, quasi fossero usciti dalla taverna della vita ordinaria, ubriachi. Li evitavamo, andavamo nei giorni lavorativi quando molti esseri umani erano impegnati in altro. Subivamo un potente processo alchemico in quel posto e questo era quello che rendeva il viaggio meritevole, avventurarsi oltre. Incontravamo alberi e fiori, sentieri, rogge e fiumi e non casualmente. Sembrava avessimo appuntamento con loro, come se ci attendessero, per farsi conoscere da noi. Non tutti in una volta ma soli o in piccoli gruppi cosicché potessimo meravigliarci della loro perfezione, un po’ alla volta. Spesso si raccontavano nel silenzio. A volte non parlavamo io e il nonno, ascoltavamo. S’interrompevano le lezioni di erudizione, quelle di storia, la lista dei miei infiniti perché e ci si ammutoliva. Il silenzio è un luogo. Quando ci si arriva, lì s’impara, lì si comunica. Sotto la cupola verde che accompagnava i sentieri del parco da noi percorsi, il silenzio era come una risata sommessa, di soddisfazione. Non so quale parte di me ridesse di gioia e mi facesse sorridere, quasi fossi ricoperta, dolcemente, da un velo da sposa. Il verde era magico come fosse l’interno di uno smeraldo, io m’immaginavo di entrare nello smeraldo. La mamma ne aveva uno nel cassetto, con il quale si era fidanzata con papà. Era come se tutto fosse leggero, i nostri passi sembravano sospesi. Seduti su un tronco ammiravamo i fiori di stagione e gli insetti che facevano festa. I nostri corpi non erano più stanchi. Forse non erano più neppure corpi. Una volta bevuta l’acqua alla fontanella alla porta di San Giorgio noi eravamo satolli e ci dissetavamo di altro. Il gesto di sfilare l’erba e masticare la base tenera, o di succhiare il nettare dai piccolissimi fiori viola che crescevano a grappoli nei prati sembrava essere sufficiente. Nell’erba c’era quiete e voglia di cadere nel sonno mentre le nuvole nel cielo si muovevano lentamente, quasi in circoli ipnotici e si sentiva quel silenzio che ha il vento alto nel cielo, delle nuvole, mentre ci si chiede:

“Ma come posso sentire il canto del vento nel cielo, che s’infila tra le nuvole e le spinge, quando sono ancora più in basso del solito… sdraiata, piccolissima nell’erba? Non sono che una bambina microscopica qui nel parco, nell’universo, una bambina che fatica a restare sveglia. Mi sforzo, di sentire il vento nel silenzio, il rumore lieve del cielo che si muove…”

Mi svegliavo stiracchiandomi, come una piccola gattina bianca, che apre il palato rosa, perfetto, intenso e delicato, in un largo sbadiglio. Aprivo appena un occhio e ricadevo in un sonno, come di ripensamento, mentre annusavo nel dormiveglia i profumi del muschio e dei fiori. Dovevo innanzitutto svegliarmi dentro, uscire un poco alla volta dai tanti sogni aperti e trovare la mia via alla vita cosciente. Mi sognavo spesso bambina, in un mondo di adulti che mi soffocavano di attenzioni e allora un po’ resistevo, poi cambiavo sogno, semplicemente saltando dentro un altro capitolo. In questi sogni spesso camminavo e facevo lunghi ragionamenti umani, a volte anche un po’ più alti, con un signore anziano. Era forte e muscoloso e sapeva tante cose. Aveva delle folte sopracciglia e occhi scuri grandi pieni di meraviglie. Si pettinava i capelli all’indietro, come gli attori del cinema e anche quando compiva lavori umani di grande sforzo, tipo scalzare alberi, piallarli, e renderli una camera da letto o un salotto, questi capelli, aiutati certamente da un gel o una brillantina, restavano davvero piuttosto in ordine. Aveva una bocca larga e generosa con grandi labbra carnose che si distendeva nei sorrisi più luminosi soprattutto quando svelava qualcosa di meraviglioso. A volte le cose che svelava erano concetti, altre volte erano oggetti, tra i più strani, che collezionava nelle tasche dei suoi pantaloni con le pinces, stretti da una cintura la cui coda penzolava sfuggendo il passante.

“Guarda cosa ho trovato” esclamava raggiante “adesso ti faccio vedere come trasformarlo da oggetto abbandonato in un insieme utile e meraviglioso.” Queste tasche a volte avevano dei buchi causati dalle bruciature dei mozziconi di sigaretta appena spenti e sua moglie lo rimproverava perché teneva anche i mozziconi delle sigarette appena spente in quelle tasche. Li rompeva appena aveva tempo e creava una nuova sigaretta. Gli facevo notare che le sigarette puzzavano. Io avevo la forma di una bambina, di circa 80 lune, magra e dinoccolata, come sono in effetti, agile, ma ero un gigante. Alta come una bambina di quell’età. Camminavo spesso, perché le bambine non possono volare e non ero molto brava a nuotare, perché non andavo spesso al mare e i miei parenti, essendo gente di pianura, temevano entrare nei laghi e nel mare. Era spaventoso trovarsi con questo bagaglio di credenze e di paure che gli umani si passano un con l’altro. Non sapevo come liberarmene anche se ci provavo. Più cercavo di liberarmene più ero ammonita. Come una matassa aggrovigliata, più tiravo più si stringeva il nodo. Mi spiaceva essere quella bambina e non poterle far ricordare che ero io. Come far loro intendere che erano un sogno e che, per quanto nel sogno sembrava volessero entrare il mio mondo, alcuni passaggi non erano esatti? Mi spiaceva vedermi con i capelli sempre corti perché in realtà i miei erano lunghi e morbidi e volavano nel vento. Si adagiavano nei fiori e nell’erba quando mi sdraiavo e splendevano nel sole. I miei capelli di seta servivano a risalire posti meravigliosi, si attorcigliavano come dei viticci, meravigliosi nella loro forma a spirale. Amavo le liane, avevo capelli lunghi come liane, braccia a gambe come liane che si aggrappavano ovunque, amavo l’edera e i rampicanti. Ero sempre scalza e indossavo piccoli abiti come petali di seta, leggeri.

Mi ci vollero anni di ricerca, interiore ed esteriore, anni di viaggi per il mondo intero. Anni di domande a persone di culture diverse. D’indagini e letture. Di sottolineature, di appunti a margine. D’innumerevoli diari scritti a caratteri microscopici, per approdare a qualcosa. Anni di percorsi a piedi e in bicicletta. Anni di preghiere e meditazioni. Anni di silenzi e di dissertazioni. Amo oltrepassare la porta del Parco di Monza, quella di San Giorgio, che oltrepassavo con il nonno da bambina. Amo quella grande scuola che è il parco. Varco le soglie per sentire la fame soddisfarsi, per avvertire gli occhi ingrandirsi nella meraviglia infantile, per sentirmi trascinare in un mulinello silenzioso, come senza peso, verso il cielo e scomparire nel blu che è invisibilità. Quando cammino è come se prendessi vento, e quando il vento arriva lo colgo e mi sembra di volare. Di essere piccolissima e infinita, di entrare nell’eternità.

Un giorno, di ritorno dai miei viaggi oltremare, vagabondavo per il Parco di Monza, forse nel 2008, d’autunno, ero matura. Ho avvertito la bocca aprirsi e cadere verso il basso in un’espressione di sorpresa per poi distendersi in un grande sorriso, come quello del nonno, prima che si ammalasse. Nella bruma, tipica del parco, ho visto un grande tavolo e una sedia. Non sapevo quanto grandi fino a che li resi mia destinazione e mi ci avvicinai. Erano enormi e io ero, finalmente, nella mia giusta misura.

Ebbi allora la netta sensazione di ricordare bene.

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Cover part Storie del Parco 2018

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ISBN 9788890933141 © Ottobre 2018

“Storie del Parco 2018”

Racconti di Dome Bulfaro, Sabrina Campolongo, Arianna Giancani, Anna Mosca, Michela Tilli.

A cura di Annalisa Bemporad e Antonio Cornacchia

Illustrazioni di Elisabetta Cagnolaro

Progetto grafico di Antonio Cornacchia

 

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