Category Archives: Racconti brevi

La giusta misura

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Sunday’s posts are dedicated to Italian poetry or short stories. Tuesdays posts will be in English as usual. Thank you for visiting, come back soon.

Questo breve racconto fa parte della preziosa antologia composta da cinque racconti intitolata “Storie del Parco 2018”, presentata al pubblico domenica scorsa durante il Festival del Parco di Monza 2018. Buona lettura!

LA GIUSTA MISURA
di Anna Mosca

 

potessi passare
la mia vita
sotto l’ombra di
un fungo matto
sbrigando serenamente
le mie faccende quotidiane
nutrendo anime mentre
attendo il sussurro
della morte che si
avvicina come il vento
tra le foglie in alto

California Notebooks 02

 

L’infanzia è un mondo a sé in cui s’imparano e scoprono tantissime cose nuove che poi dimentichiamo. Quelle che restano sono poche. Le cose imparate, come il comportamento, cosa dire, cosa fare, scalzano il ricordo di chi siamo e da dove veniamo. Io e il nonno uscivamo dal nostro cancello bianco ad Arcore e svoltavamo a sinistra, incamminandoci verso sud, destinazione Parco di Monza. Il nonno, ogni tanto mi faceva vedere che si poteva anche fuggire oltre, che aldilà del nostro incantevole giardino, c’era un mondo e lui mi accompagnava alla scoperta. Passo dopo passo m’istruiva, chissà, a trovare la mia indole, a invocare il mio futuro.

Superavamo una strada sterrata alla nostra sinistra. Era la via Carso, una buca larga e lunghissima, piena d’erba e fango, con due sentieri a lato. Le poche case presenti al tempo erano sparse tra i prati come margherite selvatiche.

“Innanzitutto togliti le scarpe” diceva il nonno “ bisogna camminare comodi”.

Non stavo in me dalla gioia. Camminare senza scarpe era un piacere. Le scarpette dei bambini non erano comode. Le mie erano carine, eleganti, quelle di pelle blu, con la gomma bianca sotto, i due buchi davanti e la cinghia laterale. Il mal di piedi era cosa comune. Velocissima le passavo al nonno. Ci lasciavamo alle spalle il mondo come lo conoscevamo e ci avventuravamo oltre i confini. La via Resegone era quasi il seguito della nostra via. Era una strada dritta, senza marciapiedi e attraversava grandi campi coltivati. Non c’era costruito nulla, né a destra, né a sinistra. C’erano i fossati davanti ai campi. Servivano a raccogliere l’acqua piovana e si riempivano di fiori in primavera: occhietti di Gesù o di Maria, bottoni d’oro e denti di leone. Poi cominciarono a riempirsi di rifiuti, lanciati dalle auto. A cento passi da casa era aperta campagna, con la catena del Resegone a destra, che gli occhi sembravano poter accarezzare solo in volo. All’incrocio con via Cervino c’era l’Osteria del Tiro a segno e lì tiravamo dritto. Era frequentata soprattutto nei fine settimana dagli uomini del paese. Facevano il tiro al piattello ma usavano anche uccelli vivi. Superavamo la Cà Bianca, una frazione di Arcore, situata a metà nel percorso e si proseguiva verso Villasanta, nell’afa chiara estiva, tipica della pianura, prima di calarci nell’ombra del Parco. Il Re era stato ucciso raccontava il nonno, e tanti dei nobili, le cui ville incrociavano i nostri percorsi, erano finiti male pure loro. Tra storie di re e nobili, di omicidi e di morti, di storia e di guerre, arrivavamo al passaggio a livello, dove ci fermavamo a riposare sempre, che fosse chiuso o aperto. Ci accovacciavamo all’ombra. Mi accorgevo che avevo sete. Non esistevano le bottigliette di plastica. Se era piena estate e avevo tanta sete il nonno mi insegnava come resistere. Raccoglieva una pietruzza tonda:

“La pulisci dalla polvere e la metti in bocca” diceva, “vedi, la tieni in bocca, come fosse una caramella, ma stai attenta a non ingoiarla, altrimenti ti devo appendere a testa in giù per farla uscire” aggiungeva, “non ingoiarla.” Lui serio, io ridevo.

Funzionava. Provocava salivazione e si avvertiva un certo sollievo dalla sete.

Osservavamo il passaggio a livello mentre ci riposavamo. Erano due sbarre, una per ciascun lato dei due binari, bianche e rosse. I binari allora si attraversavano con cautela, guardando bene. Il nonno mi teneva sempre per mano, anche quando le nostre mani erano piene di pietre, cordini, viti e bulloni o qualsiasi oggetto trovato per strada. Raccoglievamo tutto e tra di noi discutevamo dell’uso che potevamo farne. Immediato o meno. Le tasche del nonno erano spesso piene di cose da riportare a casa. L’erba alta era gialla, come le erbacce e gli strigoli. Si muovevano pigri gli strigoli, con i loro palloncini verdini e bianchi, quasi di carta, sembravano ergersi verso il cielo e gonfiarsi di aria. Non vedevo l’ora di acchiapparne qualcuno e di farli scoppiare tra le dita. L’erba alta cominciava a muoversi più veloce. Il nonno s’inginocchiava a terra e metteva l’orecchio al terreno. Restava lì fermo un attimo e se cominciavo a parlare si metteva un dito alle labbra e corrugava le folte sopracciglia lanciandomi un’occhiata ammonitrice. Dopo un paio di minuti d’immobilità, mi diceva, con tono certo:

“Arriva il treno. Quando è passato procediamo per il parco”.

L’erba e gli strigoli si muovevano ancora più freneticamente quasi avessero ascoltato il nonno e si lanciavano in una danza eccitata. Il treno faceva un rumore assordante per una bambina piccola com’ero io. Mi faceva paura. Il nonno mi teneva stretta tra le sue braccia facendo da scudo al rumore, come se fosse un nemico in carne e ossa. Nel frattempo teneva gli occhi sui binari, mentre io i miei li chiudevo. Quando il treno era passato, un poco alla volta lui allentava la stretta, io aprivo gli occhi e toglievo le manine dalle orecchie. Le sbarre dei binari salivano lentamente. L’erba alta a lato treno si riprendeva dal passaggio del treno e cercava di rimettersi composta, riassettandosi con mossette lente.

Ci avviavamo giù per la discesa dopo i binari, io tra salti e passi a mezz’aria, che quasi mi sembrava di volare. A lato strada, tra gli arbusti incolti, cercavamo un piccolo bastone per me. Camminavo più compita, con tanto di bastone da passeggio, mentre ci avvicinavamo al ponte dell’era Napoleonica sopra il fiume Lambro. “Pensa, questi massi, sono stati messi insieme, più di duecento anni fa, per fare questo ponte” mi spiegava il nonno. “Duecento anni sono tantissimi,” precisava, “Napoleone era imperatore e aveva una sorella che si chiamava come la tua mamma, Paolina”, aggiungeva con un sorriso d’orgoglio. Il nonno si era sempre dimostrato orgoglioso della sua famiglia. Era una bella sensazione sentirsi tribù e parte di un’unità di amore e rispetto. Io duecento anni non riuscivo a immaginarli.

Al piccolo centro di San Giorgio, gettavamo giusto un’occhiata veloce, io il più compìta possibile, probabilmente ancora scalza. In una mano il bastone e nell’altro la forte mano del nonno, di cui andavo ancora più orgogliosa che del nuovo bastone da passeggio. Attraversavamo rapidi, con il mio piccolo naso e quello grande del nonno, protesi in avanti, come fossimo cani da fiuto. Rimaneva ancora un pezzettino di strada da fare. Forse una quindicina di passi, che compivamo di fretta per evitare il pericolo delle macchine in curva che arrivavano in velocità. Io con il cuore in gola. Eravamo giunti sotto l’arco dell’ingresso di San Giorgio, al Parco di Monza. Alla nostra sinistra c’era la portineria e a destra la fontanella dell’acqua fresca. Io ci entravo anche con i piedini. Eravamo arrivati. Avremmo cercato un angolino bello per sederci e ammirare la natura, per intagliare i nostri bastoni, per raccogliere bacche e fiori. Avremmo guardato le cose meravigliose contenute in questo grande parco costruito per un re, quindi, va da sé, pieno di tesori.

Nel parco, la strada che si estendeva verso destra era piena di more mature d’estate. Ci riempivamo le mani e le guance di quelle more, come gli scoiattoli con le ghiande. Capitava che, nella foga, io stessi poco attenta alle spine dei rovi, mi pungessi e piangessi disperatamente. Sapevo che le principesse punte da un rovo potevano cadere in un sonno quasi eterno. Piangevo più per il dispiacere di dover lasciare questo mondo pieno di bellezza e per la paura dell’incantesimo, che per il dolore vero e proprio. Il nonno impiegava parecchio tempo a dimostrarmi che si trattava di un rovo comune, a cercare le spine conficcate nella mia pelle, a toglierle quando possibile, a baciarmi le manine o i gomiti o le ginocchia.

“Allora non sei un orsetto come credevo”, diceva per distrarmi, “sai loro si buttano nei rovi, coperti da quella loro pelliccia e mangiano tutto quello che trovano, sono ghiottissimi!”

“Ma anch’io sono ghiotta, nonno” lo interrompevo.

“Ma non hai la pelliccia che ti protegge e sei troppo bianca e bionda per essere un orsetto, dov’è la ciccia su queste gambette lunghe e su queste braccine magre?”

Il viale a sinistra invece era ombreggiato e c’erano parecchie famiglie di alberi e un sottobosco incredibile, in ogni stagione. In primavera il sottobosco si copriva di aglio ursino i cui fiori bianchi erano una meraviglia. D’estate l’aglio ursino scompariva e apparivano fiori selvatici e felci, le cui giovani foglie si arrotolavano su se stesse in piccole spirali quando impaurite. Le felci sono piante molto sensibili in grado di emozioni, visibili anche agli occhi umani. I prati erano pieni di margherite pratoline, quelle che arrossiscono a fine petalo, e che si chiudono appena fa sera. C’erano anche le margherite più spavalde, tutte bianche, anche loro amavano andare a letto presto. Se erano già chiuse quello era il segnale per noi di rimetterci sulla via di casa. In primavera il verde era frammisto al giallo dei botton d’oro, i ranuncoli. Si diceva che intrecciati in una coroncina, messa sul capo o al collo, allontanavano la pazzia nera dell’inverno. Sprigionavano l’amore del sole che con il suo bacio guariva.

Il Parco di Monza aveva una sua forte dimensione energizzante e contemplativa. Appena varcavamo il cancello era come se fossimo investiti da una doccia di goccioline verdi che ci rinnovava la carica e la visione. Era come se si creassero in noi mulinelli di acqua che cercava la sua via e poco alla volta si acquietavano. Questa proprietà, sconosciuta a molti, era efficace sempre. Anche per quelli che non se ne rendevano conto, che entravano nel parco, non in punta di piedi ma sguaiati, in gruppi disordinati, quasi fossero usciti dalla taverna della vita ordinaria, ubriachi. Li evitavamo, andavamo nei giorni lavorativi quando molti esseri umani erano impegnati in altro. Subivamo un potente processo alchemico in quel posto e questo era quello che rendeva il viaggio meritevole, avventurarsi oltre. Incontravamo alberi e fiori, sentieri, rogge e fiumi e non casualmente. Sembrava avessimo appuntamento con loro, come se ci attendessero, per farsi conoscere da noi. Non tutti in una volta ma soli o in piccoli gruppi cosicché potessimo meravigliarci della loro perfezione, un po’ alla volta. Spesso si raccontavano nel silenzio. A volte non parlavamo io e il nonno, ascoltavamo. S’interrompevano le lezioni di erudizione, quelle di storia, la lista dei miei infiniti perché e ci si ammutoliva. Il silenzio è un luogo. Quando ci si arriva, lì s’impara, lì si comunica. Sotto la cupola verde che accompagnava i sentieri del parco da noi percorsi, il silenzio era come una risata sommessa, di soddisfazione. Non so quale parte di me ridesse di gioia e mi facesse sorridere, quasi fossi ricoperta, dolcemente, da un velo da sposa. Il verde era magico come fosse l’interno di uno smeraldo, io m’immaginavo di entrare nello smeraldo. La mamma ne aveva uno nel cassetto, con il quale si era fidanzata con papà. Era come se tutto fosse leggero, i nostri passi sembravano sospesi. Seduti su un tronco ammiravamo i fiori di stagione e gli insetti che facevano festa. I nostri corpi non erano più stanchi. Forse non erano più neppure corpi. Una volta bevuta l’acqua alla fontanella alla porta di San Giorgio noi eravamo satolli e ci dissetavamo di altro. Il gesto di sfilare l’erba e masticare la base tenera, o di succhiare il nettare dai piccolissimi fiori viola che crescevano a grappoli nei prati sembrava essere sufficiente. Nell’erba c’era quiete e voglia di cadere nel sonno mentre le nuvole nel cielo si muovevano lentamente, quasi in circoli ipnotici e si sentiva quel silenzio che ha il vento alto nel cielo, delle nuvole, mentre ci si chiede:

“Ma come posso sentire il canto del vento nel cielo, che s’infila tra le nuvole e le spinge, quando sono ancora più in basso del solito… sdraiata, piccolissima nell’erba? Non sono che una bambina microscopica qui nel parco, nell’universo, una bambina che fatica a restare sveglia. Mi sforzo, di sentire il vento nel silenzio, il rumore lieve del cielo che si muove…”

Mi svegliavo stiracchiandomi, come una piccola gattina bianca, che apre il palato rosa, perfetto, intenso e delicato, in un largo sbadiglio. Aprivo appena un occhio e ricadevo in un sonno, come di ripensamento, mentre annusavo nel dormiveglia i profumi del muschio e dei fiori. Dovevo innanzitutto svegliarmi dentro, uscire un poco alla volta dai tanti sogni aperti e trovare la mia via alla vita cosciente. Mi sognavo spesso bambina, in un mondo di adulti che mi soffocavano di attenzioni e allora un po’ resistevo, poi cambiavo sogno, semplicemente saltando dentro un altro capitolo. In questi sogni spesso camminavo e facevo lunghi ragionamenti umani, a volte anche un po’ più alti, con un signore anziano. Era forte e muscoloso e sapeva tante cose. Aveva delle folte sopracciglia e occhi scuri grandi pieni di meraviglie. Si pettinava i capelli all’indietro, come gli attori del cinema e anche quando compiva lavori umani di grande sforzo, tipo scalzare alberi, piallarli, e renderli una camera da letto o un salotto, questi capelli, aiutati certamente da un gel o una brillantina, restavano davvero piuttosto in ordine. Aveva una bocca larga e generosa con grandi labbra carnose che si distendeva nei sorrisi più luminosi soprattutto quando svelava qualcosa di meraviglioso. A volte le cose che svelava erano concetti, altre volte erano oggetti, tra i più strani, che collezionava nelle tasche dei suoi pantaloni con le pinces, stretti da una cintura la cui coda penzolava sfuggendo il passante.

“Guarda cosa ho trovato” esclamava raggiante “adesso ti faccio vedere come trasformarlo da oggetto abbandonato in un insieme utile e meraviglioso.” Queste tasche a volte avevano dei buchi causati dalle bruciature dei mozziconi di sigaretta appena spenti e sua moglie lo rimproverava perché teneva anche i mozziconi delle sigarette appena spente in quelle tasche. Li rompeva appena aveva tempo e creava una nuova sigaretta. Gli facevo notare che le sigarette puzzavano. Io avevo la forma di una bambina, di circa 80 lune, magra e dinoccolata, come sono in effetti, agile, ma ero un gigante. Alta come una bambina di quell’età. Camminavo spesso, perché le bambine non possono volare e non ero molto brava a nuotare, perché non andavo spesso al mare e i miei parenti, essendo gente di pianura, temevano entrare nei laghi e nel mare. Era spaventoso trovarsi con questo bagaglio di credenze e di paure che gli umani si passano un con l’altro. Non sapevo come liberarmene anche se ci provavo. Più cercavo di liberarmene più ero ammonita. Come una matassa aggrovigliata, più tiravo più si stringeva il nodo. Mi spiaceva essere quella bambina e non poterle far ricordare che ero io. Come far loro intendere che erano un sogno e che, per quanto nel sogno sembrava volessero entrare il mio mondo, alcuni passaggi non erano esatti? Mi spiaceva vedermi con i capelli sempre corti perché in realtà i miei erano lunghi e morbidi e volavano nel vento. Si adagiavano nei fiori e nell’erba quando mi sdraiavo e splendevano nel sole. I miei capelli di seta servivano a risalire posti meravigliosi, si attorcigliavano come dei viticci, meravigliosi nella loro forma a spirale. Amavo le liane, avevo capelli lunghi come liane, braccia a gambe come liane che si aggrappavano ovunque, amavo l’edera e i rampicanti. Ero sempre scalza e indossavo piccoli abiti come petali di seta, leggeri.

Mi ci vollero anni di ricerca, interiore ed esteriore, anni di viaggi per il mondo intero. Anni di domande a persone di culture diverse. D’indagini e letture. Di sottolineature, di appunti a margine. D’innumerevoli diari scritti a caratteri microscopici, per approdare a qualcosa. Anni di percorsi a piedi e in bicicletta. Anni di preghiere e meditazioni. Anni di silenzi e di dissertazioni. Amo oltrepassare la porta del Parco di Monza, quella di San Giorgio, che oltrepassavo con il nonno da bambina. Amo quella grande scuola che è il parco. Varco le soglie per sentire la fame soddisfarsi, per avvertire gli occhi ingrandirsi nella meraviglia infantile, per sentirmi trascinare in un mulinello silenzioso, come senza peso, verso il cielo e scomparire nel blu che è invisibilità. Quando cammino è come se prendessi vento, e quando il vento arriva lo colgo e mi sembra di volare. Di essere piccolissima e infinita, di entrare nell’eternità.

Un giorno, di ritorno dai miei viaggi oltremare, vagabondavo per il Parco di Monza, forse nel 2008, d’autunno, ero matura. Ho avvertito la bocca aprirsi e cadere verso il basso in un’espressione di sorpresa per poi distendersi in un grande sorriso, come quello del nonno, prima che si ammalasse. Nella bruma, tipica del parco, ho visto un grande tavolo e una sedia. Non sapevo quanto grandi fino a che li resi mia destinazione e mi ci avvicinai. Erano enormi e io ero, finalmente, nella mia giusta misura.

Ebbi allora la netta sensazione di ricordare bene.

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Cover part Storie del Parco 2018

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ISBN 9788890933141 © Ottobre 2018

“Storie del Parco 2018”

Racconti di Dome Bulfaro, Sabrina Campolongo, Arianna Giancani, Anna Mosca, Michela Tilli.

A cura di Annalisa Bemporad e Antonio Cornacchia

Illustrazioni di Elisabetta Cagnolaro

Progetto grafico di Antonio Cornacchia

 

Storie in 100 Parole – 100 Words Stories – Ottantanove piani

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– English translation below the picture –

La caduta delle Torri Gemelle, 11 settembre 2001. Una disgrazia che ha segnato i cuori. Ogni dettaglio vivido ancora nella memoria. Dedicata alle vittime dell’attentato e ai Vigili del Fuoco che quel giorno persero la vita nell’operazione di salvataggio di alcuni civili. Che riuscirono a mettersi in salvo.

Nel 2013 Giulio Perrone editore la seleziona e pubblica per un concorso di brevi racconti. E’ pubblicata nell’antologia Storie in 100 parole nella collana L’Erudita.

ISBN 978-88-6770-063-9

Ottantanove piani
Anna Mosca

Ottantanove piani non fanno un concerto, ma una tragedia silenziosa.
In tre salgono controsenso verso una manciata di condannati, la porta è bloccata.
Un buco poi un pugno passa il muro, due visi appoggiati a una parete si ascoltano respirare.
L’ultimo del piano racconta, l’incendio infuria contro il cielo, e loro trecento metri per raggiungere terra, duemila scalini lenti e calmi contro il terrore. Quanti pensieri silenziosi, prepotenti tra un passo e l’altro, lacrime implose, disperatamente forti.
Fuori cenere, brandelli e corpi varcano l’aria, scomposti tetri fuochi d’artificio, causa del silenzio più abbagliante. Il terrore, mi hanno raccontato, è bianco.

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Cover Storie in 100 parole Perrone

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9-11, September 2001. The fall of the Twin Towers. A tragedy that shattered our hearts. Every detail is still sharp. This short story is dedicated to all the victims of the terrorist attack and, mostly, to the firemen that lost their life while trying to help some civilians. Who made it.

In the year 2013 it is selected by Giulio Perrone Publishing for their Short Stories Competition. It is published and can be read (in italian) in the volume Storie In 100 Parole (100 Words Stories) for L’Erudita.

ISBN 978-88-6770-063-9

Fiabe in 100 parole – 100 Words Fairy Tales

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– Post in Italian and in English –

Le fiabe sono magiche, oggi come allora. Giulio Perrone editore indice un concorso per fiabe lunghe solo 100 parole. La mia viene accettata e pubblicata nella collana L’Erudita.

Eccola qua, tratta da Fiabe in 100 parole:

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LA BAMBINA INDACO
di Anna Mosca

In una piccola torre sul mare viveva una bambina vestita d’azzurro. Aveva un piccolo balcone e tante piantine da accudire. Quando usciva sotto al sole si versava sulle piante e sembrava di cielo tanto era leggera e felice. Ma quando la notte scendeva si nascondeva e a volte diventava molto triste. Dimenticava che aveva un letto caldo, un gattino nero, un buon libro e la luce delle stelle tra le lacrime. Solo quando aveva un cuore grato dormiva bene. Allora sul cuscino i suoi capelli d’oro sembravano corona e volava dentro e fuori i sogni, portando nelle braccia infiniti colori.

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ISBN 978-88-6770-069-1

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2014-05-12 23.31.17

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Fairy tales are magic, today as it was before. Giulio Perrone Publishing announces, a few months ago, a competition to write fairy tales only 100 words long. Mine is accepted and published. The book is only in Italian but as the fairy tale is almost a poem I decided to translated here for those who will be interested in it:

THE INDIGO GIRL
by Anna Mosca

Once upon a time, a girl perpetually clothed in a beautiful shadow of blue, lived in a tower, right by the sea. She had a small balcony filled with potted plants to care for. When she poured herself out to them, under the sunshine, she seemed to be part of the sky, light and happy. But, when night came, she hid away, sometimes feeling really sad. She was forgetful about her warm bed, her black kitten, her books and the light of the star shining among her tears. Only when she had a grateful heart did she have a good night sleep. Then, her golden hair on the pillow looked like a crown and she was flying, in and out of many dreams, carrying in her arms infinite colors.

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Amarsi, racconto di una conversazione interiore, 2012

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-Amarsi-

Racconto di una conversazione interiore

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“Ruggine e ossa”, vedo questo film e si ferma tutto; il fiume di lava che scorre brucia, consumando il terreno e si solidifica. Scossa e pietrificata nello stesso tempo. I pensieri, veloci, si rincorrono per divorarsi uno con l’altro. Non guardo il cellulare non voglio sapere se ha chiamato, se ha scritto, se mi aspetta, cosa ha da dirmi, se ha da dirmi qualcosa oggi.

La vita è sfida e, a volte, la nostra lotta dura troppo a lungo per capire che abbiamo riguadagnato il nostro posto e la nostra dignità anche senza le gambe di prima. Troppo a lungo per capire che non ci si accomuna con i deboli perché ci si sente deboli, perché gli stessi ci porteranno a fondo nelle loro paludi di chiacchiericci e vanità.

Gente che non sa cosa vuol dire ricominciare, che non sa cosa vuol dire riprendersi la vita, dopo aver perso il controllo del proprio corpo.

Che non sa rimettersi in piedi, che parla, parla, parla e, al posto tuo, si nasconderebbe dalla vergogna. Che, codardi, prima o poi ti infilzano con un’occhiataccia, con una battuta, con un dito, perché sono in imbarazzo puro, che loro sono solo contabili o commesse delle file più grette. Sedentari che non rischiano mai, che non sanno essere diretti e sicuri delle loro prese di posizione, gente che, senza gambe, ammuffirebbe in un angolo.
Perché mi dico, con quello che ho passato e superato, io devo difendermi. E difendere quello che ho riconquistato, quello che sono diventata. Perché poi si diventa più forti, perché bisognerebbe non sentirsi menomati, e saperlo.

Dover scegliere, non essere scelti.

Ecco, ricordo tempo fa d’essere stata portata in mare, in braccio, da un innamorato tanto stavo male, che mi teneva per mano in acqua, àncora alle mie vertigini, quando avevo circumnavigato il mondo in solitario un paio d’anni prima. Di esser stata derisa da ragazzette che ci avevano avvistato, da altri abbandonata e tradita ferocemente,  e di non essermi fatta un tatuaggio su tutto il corpo. Quelli veri di tatuaggi, non quelli alla moda piccolini, ma uno di quelli che allontanino tutti i parrocchiani. Perché dico, il tatuaggio ce l’ho proprio sotto la pelle e, quando mi spoglio, e lo vedono, loro sanno di non essere alla pari; perché il pelo biondo e l’occhio grande non sembrino favoletta rosa. Tanta la grinta, tanti i successi precedenti, poi per un lungo periodo così debole, a lungo sdraiata credendo di non avere più le gambe.

Lui cammina su una gamba sola con determinazione e forza e non si ferma, non si ferma, non si ferma. Io non posso fermarmi, non posso arrotolarmi in un angolo, come un piccolo verme, e piangere perché non si tratta di ingiustizia ma di opportunità. Perché il diavolo non vende droga e tatuaggi, il diavolo ti indebolisce da dentro e ti circonda di superficialità, di teli sintetici, di ragnatele mortali e di persone che amano accarezzare la plastica. La farfalla però esce da un bozzolo da seta, non da una pozzanghera di petrolio. Fa fatica. Finalmente orgogliosa mi dico, sto uscendone e voglio essere più forte di prima, chiudere il cerchio, non farmi calpestare, non pensare troppo, non chiacchierare troppo e neppure perdermi in nuvole strane, vagando, spersa. Voglio essere io, con la mia forza centuplicata, con la dolcezza di fondo che scaturisce solo dalle prove. E che io possa dire, adesso, ad alta voce:

Ci sono stata, ci sono passata, e non cambio rotta, non cerco scorciatoie. Mi farò rispettare.

Camminerò, proprio con questo corpo che mi aveva abbandonato, con la mia determinazione spezzata e che ora ricresce nuova, su ossa d’acciaio, su un percorso di vita piena. Ecco finalmente un racconto d’azione, una storia anti-eutanasia, un amore. E’ stato come un tuffo profondo per me, ora risalgo piano. Ecco cosa è la luce, il fiato di vita, viene da dentro noi e pure viene dall’alto, dalla grazia e non dalla codardia. Così io divento un’epistola, mi racconto, nel mio piccolo, come Hawaii, come il bucaniere. Lui è un pirata perfetto – inaffidabile. Ma se l’ho incontrato ci sarà un perché. Lui mi porta in giro per la sua città orgoglioso, tirandosi dietro un arto quasi morto. Non si preoccupa degli sguardi altrui né delle nostre differenze. Si siede e mi si tiene contro. Lui, io, il cane, stiamo tutti stretti. Io neppure mi sono accorta delle stampelle sul sedile posteriore. Non le usa quando è con me. Lui non si ferma. Io, ogni tanto, mi inceppo. Ecco, capire che si deve tener duro, che si può essere importanti anche senza essere infallibili e contribuire al benessere degli altri, che ci si adatta a tutto e che ci si rafforza. Che ci vuole elasticità, che ci vuole movimento, spontaneità, vulnerabilità e che servono anche dei sorrisi, mentre si naviga.

Ora la smetto e lo chiamo.

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Questo racconto ha vinto il primo posto al concorso indetto dalla rivista Vorrei ed è stato pubblicato il 19-12-2012.
In seguito sarà il primo racconto ad aprire la raccolta che sarà pubblicata da Vorrei nei 2013.
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“Seduta finché in piedi.”

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“Seduta finché in piedi.”

Concludo così la conversazione con il controllore del treno 1535 diretto da Milano Centrale a Imperia Porto Maurizio. Tempo di percorrenza previsto ore 4.10. Sabato 3 Settembre, ore 9.10. Ridiamo, la frase ha un che di assurdo, di sconclusionato, ma le condizioni di viaggio non sono da meno.
In questo momento sono anche l’unica ad avere una piccola fonte di luce, lo schermo del mio computer. Dentro le gallerie si piomba nel buio totale, cadono i giornali e i libri dalle mani dei viaggiatori sorpresi, delusi e si rompe il silenzio. Borbottano, si lamentano sottovoce, mi chiedo perché, piuttosto, non intoniamo un canto rivoluzionario ad alta voce. Prigionieri di un sistema che serve vittime, che pagano per servizi non offerti, per essere sviliti. Lo so la mia faccia al buio con questa lucina blu avrà un che di spettrale mentre gli altri cinque passeggeri nello scompartimento mi guarderanno con invidia. Con i loro occhi, puntati su di me, nel buio, parlo anche in loro vece. Questa galleria sembra infinita.
Succede che il primo sabato del mese di settembre Trenitalia proponga un treno con una sola carrozza di prima classe, rispetto alle solite due. Non che viaggiare in prima sia una scelta snob. Le altre carrozze sono tutte piene quindi resta solo la possibilità di comprare il biglietto in prima. Con un’esplicita dicitura al posto dei numeri posto e carrozza: Posto a sedere non garantito. Ossia paghi un biglietto di prima classe e stai in piedi in un corridoio che non ha neppure quei piccoli sedili a ribalta. Credo non ci resti che ringraziarli che i bagni non siano ancora a gettone. Un paio di giorni fa ho dovuto percorrere quattro vagoni per accedere a un bagno funzionante, per assistere al meraviglioso fenomeno da museo della scienza e della fisica, dell’acqua di scarico che saliva verso l’alto piuttosto che scendere verso il basso. Il che non solo mi ha donato una nuova esperienza e soggetto di conversazione da aperitivo con amici dallo stomaco forte ma mi ha anche chiarito le idee sul perché le persone che tornavano dal bagno quel giorno avevano sempre uno strano odore. Mi ero chiesta: Ma cosa fanno questi nei bagni, ci cadono dentro? No, é lo scarico che sale a loro. Un‘esperienza sbalorditiva, unica.
Conclusa questa parentesi, visto che non ho nessuna intenzione di attraversare, al buio, un corridoio stipato di valige e persone già stanche, per visitare i bagni del 1535 del 3 settembre, torno allo stupore mattutino. Di quando, in anticipo di un’ora, ho percorso la banchina su e giù per capire il numero discontinuo delle carrozze. Dopo la prima carrozza sulla quale compariva un numero stampato su carta: 1, si passava a vagoni di seconda ma che cominciavano con il 4, per poi passare al 2 poi al 3 ed infine al 5. Non solo mi era toccato pagare 8 euro in più, dovevo continuare a districarmi tra numeri a sorpresa. Finché il bigliettaio che si aggirava tra i vagoni per raggiungere la carrozza 8, in testa al treno (ma la più lontana di tutte) eremo sicuro dalle ire dei passeggeri, specifica che: se sul biglietto appare la data e l’orario non serve la vidimazione alle macchinette frequentemente lampeggianti e senza inchiostro. Lo taggo e chiedo conferma. Delucidazioni sui biglietti emessi oggi: Fintanto che non arriva chi ha prenotato io resto seduta qui finché non sarò costretta a stare in piedi? Sì, e ride, finché può. Trenitalia, sorgente di filosofia profonda.
Intanto nel corridoio buio si aggira una cinese con una provvidenziale torcia determinata a raggiungere uno dei bagni a sorpresa.